Democrazia rappresentativa o democrazia diretta?

03 agosto 2018

E’ questo l’interrogativo che troneggia sulla nuova copertina di Left, la rivista settimanale edita da Matteo Fago e diretta da Simona Maggiorelli.

All’interno del nuovo numero, in edicola da oggi, si affronta la complessissima tematica partendo dalle affermazioni di Beppe Grillo e Davide Casaleggio, che in più occasioni hanno ribadito la necessità di sostituire la democrazia rappresentativa (abolendo il Parlamento) con una forma di democrazia più diretta e rappresentata dalla controversa piattaforma di voto Rousseau, di proprietà del gruppo di consulenze digitali strettamente connesso al Movimento 5 Stelle – la Casaleggio Associati.

Roma, 3 agosto 2018. Mentre tutta Europa e l’Italia in particolare attraversano un periodo in cui il rischio di un’eclissi democratica si fa sempre più tangibile, ripensare il ruolo dei media e il relativo impatto sulla società costituisce un argomento di importanza cruciale.

Left ne ha parlato con il fisico teorico e divulgatore Carlo Rovelli in una lunga intervista, a firma di Federico Tulli, incentrata proprio sulle dinamiche che regolano l’informazione e fanno sì che sempre più spesso si tendano a trattare come equivalenti le opinioni costruite su anni di studio e quelle fondate sul nulla.

Maggioranza non è sinonimo di verità,” – ricorda a questo proposito lo scienziato – “e la possibilità di dialogo non significa che la parola di chiunque abbia lo stesso peso in una discussione; la base del sapere è innanzitutto riconoscere la vastità della propria ignoranza, e la migliore strategia è saper riconoscere le persone più competenti e ragionevoli per risolvere i nostri problemi comuni”.

In caso di e-democracy, così viene chiamata la votazione diretta e collettiva tramite piattaforme quali Rousseau o la spagnola Podemos, questo meccanismo potrebbe vacillare.

Uno degli ingredienti fondamentali per una democrazia che passa anche attraverso il web sono i cosiddetti big data: resta solo da capire se saranno maggiori danni o benefici.

Saliti agli onori della cronaca lo scorzo marzo a causa dello scandalo di Cambridge Analytica, i big data sono tracce digitali che ognuno di noi semina in rete e che vengono sfruttate dai grandi colossi del web per veicolare pubblicità personalizzate e generare profitto, il più delle volte a nostra insaputa.

Dall’ormai celebre inchiesta scoppiata durante le elezioni presidenziali americane fino all’effetto filter bubble, una bolla mediatica propria dei social network e che tende a proporre contenuti sempre in linea con le nostre aspettative, i cattivi utilizzi dei big data sono sotto gli occhi di tutti.

Ma un uso alternativo, con ripercussioni virtuose sulla intera collettività, è ampiamente immaginabile; lo spiega a Left Dino Pedreschi dell’Università di Pisa, tra i massimi esperti mondiali in materia, per cui “queste informazioni si possono prestare ad usi radicalmente opposti. Non per speculare, ma per aumentare la conoscenza delle persone su sé stesse e sull’essere umano. Fino ad intervenire sulle modalità positive di relazionarci con gli altri”.

Pedreschi, intervistato da Left, cita alcuni degli esempi positivi circa l’impiego di big data che lo hanno coinvolto.

Come, ad esempio, “uno studio condotto sulla base dei dati di consumo dei soci Coop con il preciso scopo di indagare il tasso di integrazione dei migranti”, e che ha mostrato come siano sufficienti appena 5 anni perché la distanza con il volume di acquisto degli italiani si riduca in maniera netta.

Le nuove tecnologie, i big data, i mezzi di comunicazione, avranno tutti un ruolo da protagonista nel disegnare il mondo del futuro; sta all’uomo farne il giusto impiego.

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